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domenica 14 ottobre 2018

IL FASCINO DEL TALENTO

Mi pare giusto concretizzare in inchiostro informatico qualche parola sulla squadra, a parer mio, più affascinante della NBA attuale, i Lakers.
Questa mia attrazione non è, incredibilmente, dovuta a James, anzi. LeBron è l'unica certezza, l'unico pilastro etico, tattico e dogmatico che osserviamo in questi Los Angeles. Come sempre sarà, il 23 è fantastico, ma proprio questa sua purezza incorruttibile me lo rende ormai consuetudine: ovunque vada, fa bene. Certo, l'entusiasmo è a mille, ma la curiosità nei suoi confronti è nulla, perché ingiustificata osservando la sua leggenda passata e presente. L'attrazione sorge, infatti, principalmente dal mistero, dall'imprevisto che plasma meraviglia nell'atmosfera. Per questo James non mi affascina. È stupendo, certo, ma poco affascinante.
Se non da lui, quindi, da dove sorge quell'emozione incerta che emerge spontanea dall'anima? Da tutti gli altri, in particolare, da quegli ultimi talentuosissimi che si celano nell'ombra della squadra più illuminata del mondo. Beasley, Rondo, Stephenson, Mcgee, in primis, ma anche Ball, Ingram, Kuzma. Dei giovani è intrigante il potenziale, mentre per i "veterani" il discorso si spezza in due diverse vie, antitetiche nel giudizio: da una parte il passato li ha deformati, demonizzati, resi oscillanti su montagne russe prestazionali, mentre dall'altra, sotto quelle figure ormai guardate con occhio sorridente di derisione, ancora rimane nitida la consapevolezza del loro enorme talento. Tutti e quattro hanno deluso, qualcuno di più, qualcuno di meno, ma ancora oggi, nonostante i fallimenti, sono intriganti quanto un mistero irrisolto. La loro follia, un misto di pazzia e genialità, è mossa da una predisposizione naturale a meravigliare gli assistenti, sia negativamente che positivamente. Proprio questa imprevedibilità, paradossalmente, può trasformarsi nel Jolly funzionale alla vittoria. Le squadre di LeBron, troppo spesso, sono parse unidirezionali, assolutamente pronosticabili nella pratica, perché tutto ruotava attorno esclusivamente al numero 23, detentore assoluto dei fili per controllare in modo totalitario l'incontro. Questo controllo però si è sempre tradotto in un punto debole: se si limitava LeBron, si limitava l'intera squadra, incapace di ovviare al suo depotenziamento forzato. Nessuno, sopratutto nei Cleveland, è mai sembrato in grado di caricarsi, in particolare nella metà campo offensiva, l'intera squadra nel momento di assenza del suo condottiero. Nei Lakers questo paradigma può invece mutare, a patto che questi quattro matti riescano ad emergere dalla trascuratezza nel momento del bisogno. Possono fungere da bagliore in mezzo al nulla, da stranezza in mezzo alla normalità, in grado di spazzare via i piani studiati dalla altre contendenti. Se riuscissero a rivelare, in modo alternato, la loro faccia eroica, e non quella malvagia, potrebbero permettere ai Lakers di essere molto più forti di quello che oggi noi pensiamo. Molto passa dalle mani di LeBron, troppe volte considerato incapace di coinvolgere profondamente i compagni nel progetto. A lui spetta dimostrare l'unica cosa che fin'ora non è riuscito a confermare in modo completo: essere un leader, non solo in campo, ma anche nella mente di coloro che lo seguono. Non sarà facile, considerando il curriculum dei quattro alunni, cavalli indomabili. Potrebbe essere la sua ultima grande impresa, per consacrarsi legittimamente a pretendente del titolo che fino da quando era ragazzino il mondo gli voleva veder realizzare. Attenzione, quindi, perché con questi 4 i Lakers potrebbero essere una mina vagante, in grado di distruggere sia i pronostici che loro stessi.

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