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Juventus, CR7 prove di addio: Storia di un'amore mai decollato

 Rispetto, passione e voglia di vincere . Tre pensieri che accomunavano la Juventus e Cristiano Ronaldo tre anni orsono e che sono stati f...

lunedì 30 aprile 2018

Commento Inter - Juventus

Una direzione altalenante dal punto di vista tecnico, non da quello relazionale con i giocatori, di Orsato mal si sposa con una partita che ha offerto una pletora di episodi controversi e più o meno complicati. Polemiche, soprattutto per il rosso a Vecino in abbinata all'espulsione mancata di Pjanic, aspettiamocene, in questo caso peraltro con più di qualche elemento dal punto di vista tecnico, soprattutto nel secondo dei casi.
Tatticamente dobbiamo elogiare la cattiveria con cui l'Inter è andata a prendere alto la Juve anche dopo il rosso, dobbiamo denotare quanto decisive siano state le prove dei due terzini-ala Cancelo e Cuadrado e come abbia inciso la mossa di Allegri di rimettere Costa a destra dopo che l'ingresso di Bernardeschi aveva scombossulato il ritmo offensivo dei bianconeri.
Questa partita è però un manifesto per evidenziare quanto le interazioni tra i calciatori contino nel calcio. La Juve è una squadra che ha dominato in patria per più di un lustro e ha costruito molto dei suoi successi con una grande coesione. La Juve di Allegri inoltre ha marcatamente segnato le differenze con le precedenti e con le altre squadre per il grande spazio dato in fase di possesso alla libera e naturale collaborazione dei singoli, tanto più efficace quanto più ci sono intesa e coesione. La Juve era una squadra che andava via dritta senza curarsi degli altri e che giocava per il gusto di vincere assieme. Però una squadra che funziona così non fa quelle dichiarazioni nel post-partita col Real. Non cercherebbe di scaricare responsabilità. Non è un caso che sia la fase di possesso della Juve quella che sferraglia maggiormente, che perde geometrie non appena si alza l'intensità. Barzagli e Buffon, gente che la Juve dominante l'aveva costruita, sono stati spesso quelli a deludere, più che a trascinare. Adani si chiedeva ne pre-partita se gli attaccanti della Juve si divertissero. C'è grosso squilibrio tra la qualità tecnica a disposizione e la qualità del gioco prodotto, quindi se si vuole continuare ad avere questo tipo di rose, sarebbe probabilmente utile cambiare i fondamenti della coesione di gruppo. Nota importante, un lampo di intesa estemporanea è comunque quello che consegna la vittoria alla Juve: la corsa di Matuidi che ha impedito a Santon di stare con Higuain in occasione del terzo gol che ha evitato un risultato dal sapore di "partita del sorpasso definitivo".
L'Inter dal canto suo è una squadra che sta sul cammino ascendente verso il Nirvana, fatto decisamente non scontato visto come le questioni interne hanno tenuto banco negli ultimi anni. La logorrea di Spalletti ha intessuto una gruppo coeso che in campo sta bene e che ha solo bisogno di maggiore esperienza e tempo passato insieme per lasciarsi alle spalle i saltuari Black out e le umoralità che ancora caratterizzano i nerazzurri.


domenica 29 aprile 2018

Let him go part 1

Quando penso a Dwyane Wade subito, quasi istantaneamente, provo sensazioni calde, positive, inguaribilmente intrise di passione. Flash è stato uno dei giocatori che più ho amato nell’era post Jordan e credo di poter parlare anche a nome di molti, forse moltissimi, di voi. In questi giorni si è parlato molto della sua carriera e della possibile conclusione del glorioso percorso che lo ha portato a vincere tre anelli e a diventare, probabilmente, una delle guardie più forti di tutti i tempi.
La sconfitta in gara 5 contro Philadelphia potrebbe essere stata la sua ultima partita con la #3 degli Heat sulle spalle. La cosa non mi rende triste, sarò sincero, anzi il mio sentimento vive decisamente lontano dalla malinconia. Non perchè sono una persona insensibile e nemmeno perchè il mio cuore è ingabbiato da cinico fatalismo. Nulla di tutto questo.
Rispetto e ammiro troppo Dwyane Wade per restarci male. Credo fortemente che un giocatore, soprattutto uno del suo lignaggio cestistico, debba decidere quello che è meglio per se, considerando tutti gli aspetti necessari. Non sarò certo io a supplicarlo per andare avanti un altro anno, nonostante in alcune gare di questi Playoffs abbia dimostrato di essere ancora uno che sa impadronirsi del destino di una partita. Sono stati momenti splendidi, soprattutto in gara 2 dove è stato a dir poco leggendario.
Se Dwyane deciderà di smettere io sarò al suo fianco. Senza tristezza. Senza malinconia.
Lo lascerò andare, rispettosamente.
Quando vorrò vederlo giocare mi basterà chiudere gli occhi. Non YouTube. Non vecchie registrazioni. E’ tutto nella mia testa, impresso a fuoco nel mio fragile cuore di innamorato. E’ lì che si trova la sua legacy ed è proprio per questo che la sua grandezza è degna di essere chiamata tale.
Ricordo un episodio risalente alle Nba Finals del 2013, quelle fra i suoi Miami Heat e i San Antonio Spurs. Dopo il suono della sirena di gara 7, che decreta la vittoria del suo terzo anello, Dwyane si ritrova a bordo campo con Gregg Popovich. I due si abbracciano e il coach di San Antonio, in mezzo a tante parole, gli dice: “You’re Dwyane Wade”. Un momento bellissimo, di una delicatezza assolutamente fuori dal comune. Credo che coach Pop, a cuore aperto, volesse dirgli che, nonostante tutti gli onori della vittoria sarebbero andati a LeBron, lui era stato fondamentale affinché tutto questo fosse possibile. Gli ha ricordato per l’ennesima volta che non è uno dei tanti. Gli ha ricordato la sua grandezza.
Lui è Dwyane Wade. Altre parole non sono necessarie.
Ecco, penso esattamente la stessa cosa. Quindi non soffrirò se uno dei miei giocatori preferiti dovesse smettere. Ne arriveranno altri. Nessuno, però, sarà mai come Dwyane Wade. Pensare che prima o poi arrivi qualcuno a prendere il suo posto è pura illusione. Credere che possa nascerne uno in grado di emularlo e di farlo rivivere a livello cestistico non sarebbe giusto. Se deciderà di smettere lo lascerò andare. Non fingerò di cercarlo dove non c’è più.
Lui è Dwyane Wade. Lo sarà per sempre.

sabato 28 aprile 2018

Commento semifinali Europa League

Non penso che Ceferin sia particolarmente interessato all’Europa League, perchè se lo fosse non esiterebbe a introdurre il VAR nelle competizioni europee.
Mai come in questa edizione ci sono stati chiari errori che hanno indirizzato le partite da una parte o dall’altra, i quali diventano assolutamente determinanti in partite a eliminazione diretta: sarà il Mondiale più bello di sempre anche grazie all’introduzione della moviola, ringraziando la lungimiranza di Gianni Infantino e il lavoro di Pierluigi Collina, impegnato in questo periodo a Coverciano nell’addestramento degli arbitri pre-selezionati per la Coppa del Mondo.
Questa sera a farne le spese è il RB Salisburgo quando, nel corso del primo tempo, si vede convalidare un gol realizzato con la mano da parte di Thauvin: impossibile da vedere per l’arbitro, difficile per l’arbitro di porta, istantaneo davanti al monitor: è questo il tanto rimpianto “bello del calcio”?
In ogni caso, le partite (sul campo) hanno dato già delle chiare indicazioni.
L’Arsenal paga enormemente la mancata concretezza sotto porta: in una partita dominata dal primo minuto, sotto ogni aspetto, sotto ogni statistica, non puoi lasciare all’avversario la possibilità di ribaltare una partita a dir poco complicata.
A maggior ragione se questo prende il nome di Atletico Madrid, l’emblema della spietatezza, nonostante il nervosismo e le difficoltà.
L’errore di Koscielny, da cui poi é scaturito il pareggio di Griezmann, non è diverso da quelli di Welbeck, Ramsey, Lacazette: la partita è stata persa (sebbene il risultato dica 1-1) davanti, non dietro.
Minimo due giornate per Simeone, grazie: l’arbitro va tutelato, a maggior ragione quando si prende del figlio di buona donna in una partita diretta in modo impeccabile.
Al Velodrome, un buon Marsiglia fa un passo decisivo verso la finale, nonostante l’evidente sofferenza patita nel corso della ripresa: nonostante la squadra di Garcia sia stata chiaramente avvantaggiata, non si può dire che non abbia interpretato bene la partita, soprattutto nel primo tempo quando con grande qualità riusciva a eludere il forsennato pressing degli austriaci.
Tanto coraggio per la squadra di Rose, a partire dalle scelte iniziali quando al veterano Schlager (addirittura classe 1997) viene preferito il talentino Wolf, classe 1999, al debutto nella competizione dal primo minuto: non è stata una serata fortunata, nemmeno in proiezione offensiva quando Gulbradsen colpisce un clamoroso palo a botta sicura.
Sebbene la rimonta sia possibile, perlomeno per quanto visto in campo, sarà decisamente più difficile rispetto al confronto con la Lazio.

venerdì 27 aprile 2018

Pull up night

Game 5.
Utah è avanti 3-1 nella serie.
Terzo quarto.
7.57 alla sirena che porterà agli ultimi 12 minuti della partita.
71-47 Utah.
Stavo per spegnere e concedermi un po’ di sonno. Ammetto.
Russ in ala blocca il palleggio, confuso. Adams gli offre uno scarico, e gli restituisce il pallone. Russ riprende il consegnato e, proteggendosi con Steven, si alza da tre: solo rete.
Sono 15, i punti di Russell.
OKC regge in difesa. Possesso successivo. Ingles passa dietro il blocco di Adams. Brody non ci pensa neanche un secondo. Palleggio, arresto, tripla. Schiaffo del nylon.
Time out Utah.
Russ scuote la testa, eppure ne ha messi 6 in un amen.
Ma lui la testa la scuote lo stesso. Non vuole uscire. Sarà colpa sua, se OKC verrà eliminata. TUTTI diranno quel che dicono sempre. Utah ha un vantaggio siderale, gioca meglio, ha una difesa spettacolare.
Ma sarà colpa sua, perché non sa coinvolgere i compagni. Perché gioca solo per i numeri. Perché non basta, evidentemente, dare il 100% ogni singola sera. Eppure, con altri andava bene. Eppure, con Iverson piaceva. Anche lui giocava da solo. Anche lui “non migliorava i compagni”. Ma i compagni di Iverson erano scarsi. E i suoi dell’anno scorso erano forti? E quelli di quest’anno? Sì, c’è PG, che è un fenomeno. Ma gli altri? Grant, Abrines, Felton, Brewer, il fantasma di Melo. Discreti complementi, niente di più. Forse qualcosa di meno.
Russ nel primo tempo ha provato a passare quella palla. Ci ha provato davvero, ma nessuno segna. E allora sai cosa? E allora basta. Allora si vive o si muore insieme, ma sulla gogna tanto andrà solo lui. È così che vuole, è così che ha costruito il suo personaggio, è fatto così. Sarà sua la responsabilità del fallimento.
Russ è rientrato dalla panchina nel terzo quarto, ha messo due triple, e ha la faccia di chi dice:”Let’s play. My game, my rules.”
Pull up jumper, poco prima del gomito sfruttando ancora il blocco di Adams, sfruttando la decisione di Snyder di passare SEMPRE dietro a quel blocco, e di lasciare il centro (Gobert o Favors) in drop, per non concedergli il ferro.
Il tiro, neanche a dirlo, entra.
L’azione successiva è in transizione, e Gobert è ancora fuori per riposarsi. Russ attacca il ferro. Segna, e neanche ci si rende bene conto di come abbia fatto ad arrivare al ferro. Un fulmine.
I successivi 4 sono liberi, i primi due guadagnati in entrata, i secondi sull’ennesimo pull up jumper della serata. Stavolta troppo decisa la difesa, impaurita, per la prima volta nella serie, dal jumper del #0.
“If I’m going down, I’m playing MY game”.
Un’altra tripla, fuori ritmo, dopo una finta, senza palleggio.
Una palla vagante recuperata che porta all’assist per PG per l’uno contro zero.
A 38 secondi dal termine, ancora una mezza transizione.
Ancora un palleggio arresto tripla. Ancora solo rete.
35 secondi al termine. 78-78.
Mostruoso.
Incredibile.
Terrificante.
Sono VENTI. In poco più di 7 minuti. VENTI.
Il “resto” è solo una conseguenza.
Sì, una conseguenza. Perché se entra quel tiro allora la difesa non può concederlo. E se la difesa non concede il tiro, concede l’entrata. E nell’entrata stiamo parlando di uno dei più grandi di tutti i tempi.
Saranno altri 13 nell’ultimo quarto. Altri 13 fatti “alla Westbrook”, attaccando il ferro, palleggio arresto al tiro dal gomito, palleggio arresto e tiro da tre.
Fra terzo e quarto quarto Westbrook ha messo 33 punti.
TRENTATRE.
Tiri di agonismo.
Tiri di volontà.
Non so quante volte possa replicare una prestazione del genere, che è stata al limite del disumano.
Non so quante volte gli “altri” possano segnare così tanto sugli scarichi, PG essere così meraviglioso, e la difesa reggere così tanto.
Ma la prestazione di Westbrook è stata una delle migliori che siano mai state fatte.
45+15, in un’elimination game.
Ma fatevi un favore: non guardate i numeri.
Guardate la faccia di Russ. La sua voglia. Non è il talento, che ti fa fare 45 punti in un’elimination game. Non solo quello.
Questo è un giocatore che mette in campo qualcosa in più.
Questo è un giocatore che ha dentro qualcosa di diverso dagli altri, e come tale merita di essere visto, trattato e goduto.
È uno dei più grandi agonisti della storia del gioco.
Sono stato sincero, all’inizio. Stavo per spegnere. Ma quelle due triple, quella faccia, mi hanno tenuto incollato allo schermo. Non i numeri.
Altrettanto sinceramente, vi dico:
Se invece di 45 ne avesse messi 41, e magari OKC avesse perso, oggi staremmo tutti quanti, me compreso, forse, a dire quanto con Westbrook sia impossibile vincere. Non difficile eh: impossibile.
E magari si faranno questi discorsi fra due giorni, dovesse Utah portare a casa Gara 6.
Ma io questa prestazione la ricorderò per sempre.
La gara in cui Westbrook mi è apparso per quel che è.
Se mai l’avessi fatto in passato, mai più penserò a lui come ad uno che “vuole solo riempire il foglio di statistiche”. Mai più.
Penserò a lui come a quel giocatore che ha saputo vincere una partita che era persa, per il semplice motivo di non aver accettato la sconfitta.
Penserò a lui come a quel giocatore che è riuscito a ribaltare l’inerzia di una partita che sembrava finita, con una prestazione al di là dell’umano.
Penserò a quelle due triple, che mi hanno salvato dall’andare a dormire.
Penserò a quel pull up jumper, magari non bellissimo, non pulitissimo, non stilisticamente perfetto, non affidabilissimo, ma che nel momento più difficile della sua carriera è entrato con una continuità ed una pulizia impressionante.
Quando, prima o poi, sarò in uno di quei momenti in cui mi sentirò soffocare, entrato in uno di quei tunnel che la vita ogni tanto ci chiede di affrontare, penserò a questa notte.
Penserò ai suoi 45 punti e alla sua voglia di uscire dal tunnel.
Alla sua voglia di gridare al mondo che no, a casa sua non si passa.
Penserò al numero 0.
Penserò a Russell Westbrook, sperando di avere quella forza, quella volontà di affrontare quella partita che è la vita.
Grazie, Russ.
Ti sono, ti sarò, sempre debitore.

giovedì 26 aprile 2018

Commento Bayern Monaco - Real Madrid

Credo che la partita del Bernabeu con la Juve abbia fatto un po' sottovalutare la forza tattica del Real Madrid, che ha saputo comunque mettere in difficoltà la costruzione del Bayern, soprattutto in quel quarto d'ora appena successivo all'uscita forzata di Robben in cui i tedeschi avevano perso la possibilità di giocare la partita verticale che avevano in mente. Gli infortuni in generale hanno condizionato tantissimo la partita del Bayern, sia nell'impossibilità di operare cambi che sarebbero serviti, sia nella necessità di cambiare piano gara in corso d'opera con l'ingresso di Thiago, sia perché Sule non è Boateng, in una serata altalenante per Hummels.
Il Real ha comunque presentato un blocco centrale piuttosto compatto, con una partita per 60 minuti molto aggressiva nell'altra metà campo e Modric al pressing sui centrali. Nonostante la grande partita di James in rifinitura, ci sono state diverse difficoltà per il centrocampo del Bayern ad entrare in partita. Che poi il Bayern abbia risposto, in certi suoi singoli, in maniera egregia alla situazione, è comunque un dato di fatto. Il Real in ogni caso si fa maggiormente apprezzare per coesione ed intesa rispetto agli avversari, e lo si vede sia dal ricamo unito ad efficacia della fase di possesso, sia nei minuti finali di arroccamento e sacrificio. Ripeto, il Bayern può comunque maledire la dea bendata per come è andata la partita, ma il Real è sicuramente una squadra in grado di costruirsi la propria fortuna. E al ritorno parte davanti di due gol.

martedì 24 aprile 2018

Rudy Gobert: L'uomo che ha dato la svolta a questi Jazz

2014.
Training camp.
Utah viene da 63 vittorie.
In due anni.
25 nel 2012, 38 nel 2013.
Al training camp si presenta una squadra con poche sostanziali variazioni rispetto all’anno precedente, fatta eccezione per due fattori:
È cambiato il coach, e Quin Snyder è stato assunto come Head Coach dei Jazz in offseson.
Rudy Gobert ha appena sorpreso il mondo con dei mondiali da urlo, eliminando la Spagna dei fratelli Gasol.
Coach Snyder ha le idee chiare. Ha visto Rudy giocare contro la Spagna, e gli dice che lo vuole veder giocare ogni singola partita come ha giocato con la Spagna:”Go out and take what’s yours”.
Detto fatto.
Rudy è stato educato dalla madre con un mantra, fin da quando era piccolissimo: “Be happy with what you have”.
La madre si è sempre fatta in quattro per mandare avanti la casa e lavorare. Ma il cibo non è mai mancato né per Rudy nè per suo fratello e sua sorella.
Ma essere felice non è stato facile, per Rudy.
Il primo anno nella Lega sostanzialmente non ha mai visto il campo. Nel suo secondo anno le cose vanno migliorando, gioca 82 partite migliorando le sue cifre. Salt Lake non è però Los Angeles, e tutti sembrano dimenticarsi di lui e dei Jazz.
La mancata risonanza mediatica pesa e raggiunge il suo culmine nell’esclusione dall’All-Star Game dell’anno scorso. Per tanti motivi, incluso il fatto che come sempre è l’attacco a vendere i biglietti.
Ma è la difesa a vincere le partite.
E Rudy lo sa.
Oggi è impossibile dimenticarsi di Utah.
La griglia pazza ad Ovest li ha messi in un matchup contro i più talentuosi di OKC. Di loro sì, che si è parlato tantissimo.
In pochi, pochissimo davano Utah vincente al primo turno.
Ancora una volta, non si parlava abbastanza di una squadra che da gennaio in poi (da quando Rudy è tornato stabilmente sano e in campo) è fra le migliori della lega.
Stanotte la terza vittoria in fila, per portare la serie sul 3-1 e garantirsi ben 3 matchball, di cui il secondo sarà in casa.
Rudy, Donovan, Ricky, Derrick, Joe.
Quin.
I loro nomi sono giustamente sulle bocche di tutti.
E Rudy lo sa.
È felice, perché così gli ha insegnato la mamma.
È affamato, perché così gli ha insegnato coach Quin.
Magari non bello da vedere, non ha la mano morbida, non segna in jumper, non è in grado di fare un crossover e poi tirare una tripla in stepback. Nulla di tutto questo. È però uno dei 3-4 giocatori NBA attorno al quale puoi costruire un sistema difensivo.
Un giocatore solidissimo, in campo e mentalmente.
Un giocatore meraviglioso.
Un uomo con un nuovo mantra:
Be happy with what you have, but go out and take what’s yours.

lunedì 23 aprile 2018

Commento Juventus - Napoli

Ho fatto fatica, lo ammetto, a seguire il filo di una partita brutta, spezzettata, giocata sull'episodio, e che a conti fatti il Napoli di Sarri ha meritato di vincere. Si potrebbe parlare dell'errore di Buffon nel concedere il calcio d'angolo, come di quello ancor più macroscopico di Benatia in marcatura su Koulibaly, ma oggi più di ogni altro giorno va riconosciuta al Napoli l'abilità di aver giocato da Juventus. Solido e spigoloso questo Napoli, meno appariscente del solito, ma efficace e consapevole di poter sfruttare a proprio favore quell'episodio citato qualche rigo fa. I partenopei ora ci devono credere più che mai ed il calendario, dati alla mano, è favorevole. Il campionato è riaperto e la Juventus per la prima volta in sei anni ha trovato un avversario in grado di alzare l'asticella al suo livello, cosa tutt'altro che scontata ad inizio stagione. Allegri di contro, a cui nessuno toglierà i meriti del suo quadriennio, è involuto in un gioco eccessivamente speculativo, calcolatore, che in match secchi è un testa o croce. Monaco, Madrid, Torino, il limite di voler controllare a tutti i costi le partite come cryptonite dirompente. Sarri per una sera ride dei castelli giornalistici costruiti sul bel gioco e con lui un'intera città, conscio che lo scudetto passa da Firenze, con un orecchio ben proteso a San Siro.

domenica 22 aprile 2018

La notte delle streghe

Benevento e il fil rouge rossonero. Il primo punto in A delle Streghe arrivò con il Milan, la prima vittoria in trasferta...anche. Cambia il campo di gioco, ma la partita di questa sera racconta altro. Esprime i rimpianti di una squadra, il Benevento troppo acerba e povera di talento per credere fino in fondo alla salvezza. Nonostante ciò, la dignità delle idee di De Zerbi, che ha scommesso sul rilancio di sé stesso prima che dei campani, ha permesso alla squadra di passare da vittima sacrificale, a sparring partner fino ad avversario da rispettare. La progettualità per queste realtà che si affacciano per la prima volta nella massima serie non esiste, una volta raggiunta la stessa. È come una sbronza prolungata da cui è difficile riprendersi. Novara, Benevento e in senso lato Carpi, dimostrano come un blocco compatto di giocatori di categoria paga per un doppio salto di categoria, meno di fronte al dislivello di valori tra B ed A. Detto ciò, la vittoria a San Siro è il giusto premio per una squadra, che non ha mollato mentalmente.
Cosa che, invece, ha fatto il Milan di Gattuso, che non era un fenomeno prima e non è un brocco adesso, dopo 4 pareggi e 2 sconfitte in 6 partite. Nessuno deve dimenticare le 10 vittorie in 13 partite nelle giornate precendenti, ma questa rincorsa spasmodica alla Champions, una volta svanito l'obiettivo, ha fatto presente il suo conto salato. Era difficile di contro non migliorare la condizione atletica, che giocatori come Bonucci, Calhanoglu e Biglia mai si ambientassero. Però, ora, anche l'Europa League è a rischio, con le avversarie a 2 punti di distacco e una partita in meno da giocare. Questa, purtroppo, è la realtà rossonera, non in grado di mantenere una continuità sufficiente per lottare per più grandi obiettivi. E il Jackpot di inizio stagione potrebbe essere solo parzialmente addolcito dalla vittoria della Coppa Italia, che comunque non guarirà possibili ripercussioni negative sul mercato estivo.

giovedì 19 aprile 2018

La rubrica del GM Sacramento Kings

Torna la rubrica, che si trasferisce in uno dei posti più difficili di tutta l’NBA su cui provare a scrivere qualcosa: Sacramento.
La domanda, sempre la stessa. Cosa farei IO oggi, diventassi GM dei Sacramento Kings? Nota bene, il suicidio e le dimissioni non sono contemplate. Quindi, che si fa?
Facile. Si affitta il proprio salary cap alle altre squadre, in cambio di scelte.
Situazione:
I Kings non fanno i playoff dal 2005-2006. Questo sarà il dodicesimo anno consecutivo senza playoff. Bene, ma non benissimo. Anzi: male, a tratti malissimo.
L’unico aspetto realmente buono, è lo spazio salariale. Con il contratto di Shumpert, che verrà tagliato quasi sicuramente, sono occupati 61 milioni di $ per il prossimo anno.
Ci saranno 9 milioni dati a Bogdanovic, quasi 9 a Kosta Koufos, 8 a Temple, che eserciterà la sua Player Option al 99.999%. Ci sono i giovani, da Fox a Cauley-Stein a Jackson e Labissiere, c’è Hield, che è un buon giocatore. Buoni contratti, per il valore dei giocatori.
I problemi sono nelle scelte: Sacramento è una squadra che non ha scelte, pur facendo sostanzialmente schifo da 12 anni. E questo è malissimo. Malissimo perché, ovviamente, nessun Free Agent non dico di top class, ma neanche middle class ci si vorrebbe avvicinare. Il problema peggiore è nella NON cultura vincente che si è creata. Con l’arrivo di un talento spaventoso come quello di Bogdanovic, però, le cose potrebbero cambiare. Forse.
Per cambiare, visto che come detto c’è bisogno di scelte (e tanto per capirci, nel 2019 manca una scelta al primo giro), l’unica alternativa che mi sembra percorribile è quella di affittare il salary cap, i 30 milioni disponibili, a squadre che vogliono sbolognare contratti senza senso. Chiedendo, però, di aggiungere al contratto senza senso una o più scelte. L’esempio, per farmi capire, è quello del contratto di Deng. Se i Lakers riuscissero ad essere competitivi dal prossimo primo luglio con la firma di (sparo nomi a casaccio) due fra Lebron/KD/PG/DMC etc., magari potrebbero volersi liberare del contratto di Deng e per farlo sarebbero disposti a cedere una scelta. Quasi sicuramente non sarà questa la soluzione, perché molto difficilmente i Lakers si priveranno delle loro scelte, ma la situazione dei lakers è nota a tutti e rende bene l’idea.
Altro? No. Ma in questo modo, facendo un enorme lavoro di questo tipo, i Kings potrebbero riuscire ad ottenere 5-7 scelte, fra primi e secondi giri, da qui ad un paio d’anni. E potrebbero ripartire. All’alba dei 15 anni senza playoff, che sono un’enormità, vero. Ma, purtroppo per i tifosi di Sacramento (ammesso esistano), il tempo dei Re rischia di essere solo un ricordo lontano.

martedì 17 aprile 2018

Work harder

Undrafted.
Unwanted.
Undervalued.
Maggio, anno 2015. Tucson, Arizona.
Timothy John si stà preparando per una finale.
Il telefono suona. È Chris Emens, l’agente di Timothy: “TJ, pack your bags, you’re getting on the next flight to Chicago”.
È la chiamata per la NBA Combine, l’evento che precede il Draft.
Quell’anno all’NBA Combine preDraft vengono chiamati 62 atleti. TJ viene chiamato per ultimo.
La sera del Draft, 60 verranno scelti. Due, no. TJ sale sul primo aereo e cerca di farsi un nome fra i 62. DEVE essere migliore di soltanto due atleti. Gli basta quello. Gli basta entrare in NBA. È durissima, perché lo testano su cose su cui non può competere. Elevazione, panca piana, trazioni. L’unica cosa che lo potrebbe salvare è il campo, ma è difficile emergere. Difficilissimo.
Arriva la sera del 25 giugno. KAT, D’angelo Russell, Jahill Okafor, Kristaps Porzingis, Mario Hezonia. Via via, cinquantacinque nomi vengono detti, uno dietro l’altro. TJ sa che può avere una chance, proprio nel finale. Dawson, Radicevic, Tokoto, Agravanis.
Ne manca uno.
Con la 60, i 76ers scelgono Luka Mitrovic.
TJ non è fra i sessanta scelti.
Demoralizzarsi non è considerata neanche un’opzione, figurarsi se viene considerata un’opzione valida. Un unico, costante pensiero frulla nella testa di TJ: “Work harder”. Gliel’ha insegnato il padre, il suo più feroce critico, il suo primo allenatore ed il suo primo tifoso.
Da quando TJ Junior ha memoria, TJ McConnell Senior allena la Chartiers Valley High School, liceo in cui Junior ha militato. Nel suo anno da freshman, Junior è 1.67 mal contati. “Everyone told me that I will not be able to make varsity or go play college basketball somewher, and it just made me work harder each day and outwork everyone”.
Il padre gli chiede la perfezione. TJ Senior sa perfettamente che la perfezione non esiste, ma cerca di instillare nella mente di Junior la ricerca della perfezione. Solo così ce la potrà fare.
Al college TJ ci arriva. In punta di piedi, in un piccolo college, Duquesne. Un giorno, la svolta. Duquesne gioca una partita contro gli Arizona Wildcats di Sean Miller. TJ perde la partita, ma decide di andare a giocare per coach Miller. È una decisione difficilissima, ma TJ è sicurissimo. Vuole giocare ad un livello più alto. Vuole avere una chance.
Con Arizona arrivano in Division I, ma non arrivano titoli. Non ci sono canestri sulla sirena, niente di niente. Anche per questo, quella sera non arriva nessuna chiamata.
Il telefono, però, squilla di nuovo. Sono i 76ers. Lo vogliono per la Summer League. TJ va. Si allena come un matto. Dà tutto sé stesso, sperando possa bastare.
Basta. Entra nel pre-roster dei 76ers.
Ottobre 2015.
Centro allenamento di Philadelphia. Mancano pochissimi giorni all’inizio della Regular Season. TJ è, in teoria, a roster. Ma quello è il giorno in cui il roster viene ridotto del 25%, si passa da 20 a 15 atleti.
TJ è stato chiamato da Coach Brown, e l’ascensore sembra metterci anni, a salire quei piani. Cuore che batte. Bussa alla porta, entra. Brown lo guarda. Si preoccupa. Sembra che TJ stia per svenire da un momento all’altro. Coach Brown sorride: “You know, you can laugh, you can do what you want”.
Questa volta sì. TJ è stato scelto. Non cambia nulla, per lui. NULLA. “I have to work harder to try and stay here now. That’s what I’ve been working on since day one, just to keep proving people wrong.”.
TJ prende il telefono. Chiama il padre. Piange. Ride. Grida. E il padre piange, ride e grida insieme a lui.
Coach Brown ne parla come di un ragazzo straordinario, che non si può non rispettare, cui non si può non voler bene. TJ non ha mai smesso di chiedere consigli. Ha lavorato con Steve Nash, per migliorare la forza del core, la stabilità del corpo, per imparare a giocare basso sulle gambe senza danneggiare la schiena. Brown lo ha messo a lavorare con Babcock, esperto di meccanica di tiro. Babcock ha imparato il mestiere da Chip Engelland, storico esperto al servizio degli Spurs. Ogni volta che lo si sente parlare si rimane affascinati. È un uomo che ha una conoscenza della dinamica del tiro abbacinante, insegna tecniche diverse a seconda della forma e lunghezza delle mani, e soprattutto sulla lunghezza relativa fra le dita.
McConnell è un giocatore di quelli che non si possono non apprezzare. Talento decisamente rivedibile, giocatore di pura intensità, di fatica. “Work harder”.
Nella partita più famosa della sua carriera, quella in cui ha messo a referto la prima tripla doppia della storia dei sixers per un uomo in uscita dalla panchina aggiungendo anche sei rubate al computo, c’è un’azione in cui c’è tutto il TJ che c’è in McConnell.
TJ ha la palla in mano, in posizione di ala. Un blocco cerca di forzare un cambio difensivo, TJ palleggia ed entra nel pitturato, ma è circondato da quattro Knicks. Chiude il palleggio, prende una botta, va per terra. La palla cade dalle sue mani, lui la riprende, la riperde e la riprende ancora. Salta, si gira in aria e tira. La palla, beffardamente, esce. Transizione NY, ma Ntikilina fa un passaggio orizzontale che TJ legge e intercetta, involandosi solo a canestro. Uno contro zero. TJ arriva quasi a canestro, guarda indietro e vede Justin Anderson, suo compagno di squadra, correre verso il canestro. Gli consegna la palla per la schiacciata.
Hustle. Poco talento. Grande intelligenza cestistica. Ottime letture difensive. Infinita resistenza atletica. Altruismo.
Un’azione. Il riflesso migliore di un giocatore.
“I would love to play 10 years in the NBA, but I can’t look that far down the road”.
La vita a volte è strana. Non si fosse infortunato Fultz, TJ quest’anno avrebbe giocato molti meno minuti. Nonostante Coach Brown lo tenga in alta considerazione, anche lui non avrebbe potuto fare altrimenti che scegliere Fultz su TJ. Con l’infortunio, invece, TJ ha avuto minuti. Responsabilità. Philadelphia gli ha affidato la second unit quasi costretta. E oggi sostanzialmente non può fare a meno di lui.
TJ non si scompone. Sa che la strada è lunga, non dà niente per scontato. Neanche un singolo giorno in NBA. In campo, in allenamento, nel tempo libero, sempre. Lui dà tutto. Guardatevi una partita. Lo vedrete a terra almeno 2-3 volte. Lo vedrete lottare, digrignare i denti, difendere, correre. Lo vedrete fare quel che ha sempre fatto. Lo sentirete, perché McConnell ve lo farà capire. Sentirete quella frase che TJ si ripete ogni giorno. Se la ripeteva quando era 1.67 e gli dicevano che era troppo basso per giocare al liceo. Se la ripeteva quando non chiamò nessun grande College. Quando ridevano alla Combine. Quando non venne scelto. La ripete ancora oggi.
Work harder.

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lunedì 16 aprile 2018

Kennett Faried: Rebound

“Se vuoi tirare devi prima andare a rimbalzo”, dice mamma Waudda al piccolo Kenneth. Lui sbuffa e non fa nulla per trattenere il nervosismo. Alla fine vuole solo prendere la palla e scagliarla verso il canestro, come fanno tutti i ragazzini della sua età.
“Rimbalzo? A rimbalzo? Davvero mamma?”, risponde Kenneth.
“Veramente, Kenneth. A rimbalzo”, incalza lei.
Mamma Waudda è una donna molto particolare. Lei e il marito, il padre di Kenneth, giocano spesso a basket assieme. Waudda, per non farsi riconoscere al playground, si camuffa per sembrare un uomo e lottare su ogni pallone senza che nessuno abbia dei pregiudizi su di lei. E’ solo una donna che ama il basket e vuole solamente giocare duramente, sfidando chiunque si frapponga fra lei e il suo obbiettivo. E’ lì che ha imparato ad andare a rimbalzo con coraggio, a sgomitare per recuperare il possesso e a leggere la traiettoria della palla, una volta che questa ha sbattuto con forza sul ferro.
Waudda è una donna forte, una abituata a sfide quasi impossibili. Come quella per la sua sessualità, orientata prevalentemente verso le donne, per la quale si è sentita spesso derisa e umiliata, dopo aver partorito Kenneth. E poi la malattia. Proprio come la madre anche lei è affetta da lupus, una brutta malattia cronica di natura autoimmune, e da diabete. Due macigni molto pesanti da portare sulle sue spalle ma che non l’hanno mai spaventata ne fatta indietreggiare di un passo.
Kenneth ammira la madre più di ogni altra persona al mondo. Se lei dice che bisogna andare a rimbalzo con tutta la forza che si ha in corpo, allora probabilmente è la cosa giusta da fare. Non importa se l’altezza non te lo permette. Leggere le traiettorie, saltare più in alto possibile, con il tempo giusto e, soprattutto, desiderare di prendere quella palla più di ogni altra cosa. Andare a rimbalzo significa prendere il controllo della partita. Essere autori del proprio destino. Per Kenneth significa anche qualcosa che va oltre l’aspetto sportivo. E’ qualcosa che simboleggia il rapporto con la madre e rappresenta l’essenza stessa della sua personalità.
E’ proprio così che Kenneth Faried inizia a diventare il giocatore che tutti abbiamo ammirato al college, con la nazionale statunitense e con la maglia dei Denver Nuggets. Ai tempi di Morehead State, quando le condizioni di mamma Waudda iniziano a peggiorare, obbligando la donna a un trapianto di reni, Kenneth ha solo una cosa che gli passa per la testa quando scende in campo.
“Immagino che ogni rimbalzo che catturo aggiunga un giorno in più alla vita di mia madre”
Kenneth vuole dominare sotto i tabelloni e non lo fa solamente a parole. Con la #35 degli Eagles di Morehead State diventa uno dei rimbalzisti più forti dell’intera nazione. Il verme rodmaniano si impadronisce della sua mente e del suo corpo, trasformando ogni pallone vagante in una opportunità. Ogni possesso diventa vitale. Ogni singolo possesso.
Se andate a vedere quali sono i giocatori ad aver catturato più rimbalzi nella storia della Ncaa dal 1985 a oggi, al terzo e secondo posto trovate:
Derrick Coleman (Syracuse, 87-90): 1537
Tim Duncan (Wake Forest, 94-97): 1570
Al primo c’è Kenneth Faried, che dal 2008 al 2011 con gli Eagles di Morehead ha catturato 1673 rimbalzi. Il più grande di tutti in questo fondamentale nell’era moderna del basket universitario. Forse quei rimbalzi sono davvero serviti per far sopravvivere mamma Waudda, che nel 2010 viene sottoposta con successo al trapianto di reni e che, precedentemente, si era legalmente sposata con Manasin, altra donna molto importante nella vita di Faried. Lottare e perseverare. Senza arrendersi mai.
“Ho il mio rene e ora posso vedere mio figlio giocare nella Nba”. E’ esattamente quello che succederà.
Nel 2011 Kenneth viene scelto dai Nuggets e diventa “The Manimal”. Un giocatore generoso, potente e spettacolare quando può attaccare in campo aperto e volare sopra il ferro. Uno che non si ferma mai, da canestro a canestro, ininterrottamente finché le gambe reggono, finché la sua squadra ne ha bisogno. E’ così che ha vinto la medaglia d’oro ai Mondiali di basket in Spagna nel 2014. E’ così che è entrato nel primo quintetto del torneo.
Lottando. Perseverando.
I Playoffs nel biennio 2012-2013. L’estensione contrattuale milionaria. Un ruolo fondamentale all’interno dell’organizzazione.
E ora… il nulla. Da metà Dicembre, Kenneth non vede più il campo. Dimenticato nell’ultimo seggiolino disponibile della panchina. Davanti a lui ci sono Jokic, Millsap, Plumlee e Lyles. Per coach Malone è semplicemente una questione tecnica. Per Kenneth, probabilmente, è anche, se non soprattutto, una questione d’orgoglio.
Una situazione difficile, estremamente dura da accettare per uno come lui. Dentro, però, Kenneth sa come venirne fuori. Se c’è una cosa che mamma Waudda gli ha insegnato è proprio quella di non arrendersi mai di fronte a nulla. Di andare a rimbalzo anche se l’altezza non glielo permette. Di andarsela a prendere dove nessuno osa mettere la mano. Di sbattere anche la faccia per terra, se necessario.
Dietro quella palla vagante c’è ogni cosa. La distanza fra un canestro e l’altro è tutto quello che separa Kenneth dal suo destino, dalle sue paure, dalle sue ambizioni.
Dentro quel campo si può veramente lottare per fare la differenza. Perchè alla fine è proprio questo il senso di tutto quanto. Fare la differenza. Per noi stessi. Per qualcuno. Per la squadra
Kenneth è seduto su quel seggiolino ad aspettare una nuova opportunità, costruendo dentro di se la motivazione per quello che verrà.
Il prossimo rimbalzo è l’unica cosa che conta. Una palla senza padrone, che si libera in cielo.
Leggere la traiettoria. Metterci una mano sopra. Poi l’altra. Ecco, il rumore più bello del mondo, quello dopo aver preso un rimbalzo.
Io, in mezzo a tanti. “E’ mia!”.
Una sensazione unica.
Non c’è nulla di più bello per Kenneth.
Ora più che mai.


sabato 14 aprile 2018

Playoffs NBA 2018 primo turno

Stasera avranno inizio i tanto attesi playoff NBA. Si parte alle 21 italiane con Golden State San Antonio, ma andiamo ad analizzare più nel dettaglio le 8 sfide che ci attendono.

Partiamo da Est, con Toronto - Washington: onestamente io non vedo come Washington possa fare la sorpresa. Io vedo molto bene questi Raptors però per me questa serie finisce 4-2, I Wizards vincono le loro due partite in casa. Sostanzialmente dipende da Wall e Beal, i due hanno avuto dei contrasti tra di loro per questioni contrattuali, quando Wall è stato infortunato Washington ha vinto 10 partite di fila, poi appena Wall è tornato hanno di nuovo faticato. Se vogliamo prendere la regular season la serie è pari, ma sappiamo benissimo che la regular season è completamente un altro sport.

Andiamo a Boston - Milwaukee: Boston è senza Smart, Irving e Hayward. Per cui i Celtics giocheranno con le riserve, ma dall'altra parte non vedo i Bucks una grandissima squadra, di conseguenza dico che nonostante le assenze passa il turno Boston seppur a fatica 4-3.

Andiamo a Houston - Minnesota: I Timberwolves hanno vinto lo spareggio nell'ultima gara contro i Denver Nuggets. Non vedo come Houston possa farsi eliminare da Minnesota, quindi penso che sarà un rapido 4-1 e non perdo neanche troppo tempo a parlarne.

Golden State - San Antonio: La potremmo chiamare la serie delle assenze pesanti; Curry come ha detto Kerr salterà tutto il primo turno dei playoff, dall'altra parte pare che Leonard rimarrà ancora fuori (almeno per gara 1). Comunque in questo momento che ci sia o no Kawhy cambia poco, passeranno i Warriors penso in 5 partite 4-1.

Ora andiamo ad approfondire Philadelphia - Miami: Secondo me è una delle serie più intriganti di questo primo turno. I 76ers sono senza Embiid, mentre Miami ha perso lo scontro diretto con Milwaukee per arrivare settimi e dunque beccare i Celtics nel primo turno (che in questo momento con tutti gli infortuni sono considerati più deboli). Vedo all'orizzonte un 4-2 Philadelphia, anche se  Phila non ha esperienza playoff nei suoi giocatori chiave ( Fultz, Simmons, Embiid) Miami ha in Wade un pluricampione, anche se  ormai ha la sua età. Il fatto che Phila non ha nessuna esperienza playoff potrebbe incidere nelle partite punto a punto. Il mio 4-2 è dunque dato dalla poca esperienza dei Sixers nella post season.

Cleveland - Indiana: Poco da dire, in questo caso penso che ci sarà un netto 4-1, ma solo perchè c'è Oladipo. Il problema principale di Indiana è che non ha nessuno in grado di marcare Lebron James. In stagione regolare i Pacers sono 3-1 negli scontri diretti, ma come detto prima quella è regular season e questi sono playoff.

Portland - New Orleans: Questa serie è meno scontata del previsto: Anthony Davis è in modalità "date palla a me che ci penso io" Lillard è in modalità "avete capito finalmente che tipo di giocatore sono". Portland sicuramente ha un roster migliore, ma i Pelicans hanno Davis che è immarcabile per i Blazers. Per cui questa serie la vince Portland a gara 7.

Oklahoma - Utah : la serie più interessante di tutto il primo turno. Lo dico perchè i Thunder nonostante tutti i problemi sono arrivati quarti ad ovest, mentre Utah fino a 3 mesi fa era fuori dai playoff e adesso è quinta a pari merito con la quarta e a una vittoria dalla terza, con cui ha perso l'ultima partita per giocarsi il terzo posto. Tralasciando ciò io dico 4-2 Utah. E uno mi dice ma perchè? Allora i Jazz in questo momento sono una delle squadre più calde della lega, Oklahoma un po' meno e tra l'altro quando le partite tendono a contare le divergenze tendono ad accentuarsi. Finchè sei in regular season e le partite sono una di seguito all'altra non c'è tanto tempo per litigare, ai playoff invece tutte le partite contano e non si può perdere una partita. Vedendo come sta giocando Anthony in questo periodo, vedendo come sta smattonando Paul George in questo periodo, vedendo come Westbrook quando la squadra non gira decide di prendere palla in mano e si prende isolamenti a palate, vedendo il supporting cast non all'altezza, partendo da Steven Adams che tutti reputano un fenomeno ma che per me è un giocatore modesto mi sento di poter dare questo pronostico.

venerdì 13 aprile 2018

La storia di Robert Covington parte 2/3

Con il cambio di allenatore e un sacco di cambi nel roster a Tennessee State, Covington ha registrato una media di oltre 27 minuti a partita, da matricola. Rapidamente, passò dall'essere un giocatore liceale sottostimato all'essere un freshman universitario da 11.5 punti e 6.5 rimbalzi a partita.
Non solo iniziò a giocare ma divenne anche il tiratore micidiale che Cooper credeva sarebbe diventato. Covington giocava in post e ad aveva il permesso di creare dal palleggio: aspetti del gioco in cui è migliorato proprio grazie a questa libertà lasciatagli. Anche se i “Tigers” registrarono un record di 9 vittorie e 23 sconfitte, gli allenatori delle varie squadre lo iniziarono a notare: “Dopo il suo primo anno, tutti lo chiamarono per chiedergli il trasferimento nella loro scuola”, disse Dockery, “Io, ovviamente, rispondevo negativamente a tutti quanti”.
Covington si trovava in una squadra in ricostruzione con tanti minuti a disposizione e con un allenatore che gli concedeva libertà di sbagliare. Suona familiare no? Anche se a TSU partì tutto, è quando tornò a Chicago che fece vedere i suoi miglioramenti. “Quello che Rob ha dimostrato è che giocando ogni giorno ed impegnandosi si diventa sempre migliori.", disse Cooper.
Questa storia non avrà sicuramente la stessa strenua di Michael Jordan che non partecipa al secondo anno della sua high school, ma Covington è stato tagliato dalla squadra di basket della Macarthur Middle School al sesto, settimo ed ottavo anno. Ha continuato a giocare a basket, tranne durante il suo settimo anno, in cui aveva un paio di F sulla pagella. La squadra Pop Warner di football di Covington era ai playoff in quel momento, ma quando Teresa Bryan si rese conto della situazione scolastica di suo figlio non gli consentì di finire la stagione o di provare con l' AAU.
Covington negli anni seguenti sembra aver reperito il messaggio. "Dopo quell'esperienza era spesso nella lista dei migliori studenti", ha detto Teresa. D' accordo con Cooper, Bryan (che il coach chiamava scherzosamente Mama B) non ha mai contestato i tempi di gioco di suo figlio o nessun altro aspetto del comportamento del coach. In realtà, racconta spesso di come implorasse il coach a "sfidare" sempre di più Covington, in modo che il ragazzo desse il massimo. Bryan è una persona romantica, e quando suo figlio ha incominciato a farsi considerare dagli addetti ai lavori NBA ha cercato sempre di non essere quelli che lei chiama "quei genitori". "Quello che loro non hanno fatto con Rob è quello che molti genitori fanno" ci dice Ford " creano questa convinzione nei ragazzi che le autorità vadano contrastate. Loro non hanno mai insegnato questo nella loro casa, loro figlio è sempre stato quindi facile da allenare. Questo lo ha solo aiutato a crescere. Il coach non è mai in torto a casa loro".
Sotto la guida di Cooper, Covington diventa un giocatore da first-team all-conference nella sua stagione da junior, guidando i Tennessee State al championship game dell' Ohio Valley Conference. Ma dopo che Cooper lasciò la squadra per accettare un incarico da coach a Miami, una frattura del menisco lo colpì durante il suo anno da senior.
Ebbe comunque una media di 17 punti e 8 rimbalzi in 21 partite durante la stagione 2012-2013 ma i Tigers come squadra ebbero una grande perdita. Di conseguenza Covington non sentirà chiamare il suo nome durante il Draft 2013, ma prima che la notte finì gli Houston Rockets gli offrirono un contratto parzialmente garantito. "Abbiamo sempre visto il fatto che non sia stato scelto al Draft come se dovesse dimostrare sempre molto di più di quelli draftati con scelte alte" dice sua madre.

giovedì 12 aprile 2018

Commento Real Madrid - Juventus

“Io non voglio stare a sindacare se era rigore oppure no. Io voglio solo dire che un direttore di gara su un episodio alquanto dubbio, anzi stra-dubbio al 93’ minuto, non può avere la presunzione o il vezzo di fischiare una cosa del genere solo per eregersi a protagonista. Una squadra che ha messo in campo, cuore, sudore, sacrificio, speranza, e tutto quello che c’era da mettere, non può essere penalizzata in questo modo. Se era rigore netto, ero il primo a dire, “abbiamo fatto una stronzata”, ma così no... Ti stai giocando una semifinale di Champions al Bernabeu. Io in quel momento all’arbitro potevo dirgli qualsiasi cosa, ma dare un rigore del genere, dopo aver messo la vita in campo, vuol dire avere il cuore di pietra, vuol dire avere un bidone dell’immondizia al posto del cuore. All’andata rigore netto su Cuadrado non fischiato, per non so quale motivo. Come sbaglio io a 40 anni a volte, non fornendo prestazioni all’altezza, e vengo criticato, deve essere criticato anche un’arbitro. Se non sei all’altezza di calcare certi palcoscenici devi startene a casa, oppure in tribuna a mangiare le patatine insieme alla tua famiglia, e in campo ci mandi qualcun’altro. Detto questo, il Real ha meritato la qualificazione ed è stato più bravo di noi nelle due partite.”

Ho voluto cominciare l'articolo con le parole di Buffon. Tutti hanno parlato della sua reazione dopo l'assegnamento del rigore, o di cosa ha detto ai microfoni di mediaset, ma nessuno ha fatto notare come ha chiuso l'intervista, lui ha detto :" Il Real ha meritato la qualificazione ed è stato più bravo di noi nelle due partite".

Detto questo andiamo a una breve analisi di questa partita.
Zidane non ha esultato al rigore di Ronaldo e questa immagine deve essere quello che la Juve porta a casa da questa partita. Possiamo dire quello che vogliamo, ma il rigore ci sta, per quanto Vazquez aderisca al triste stereotipo del giocatore che appena toccato vola, la carica di Benatia c'è.
Rimane una grande partita, in cui la Juve ha devastato il Real sulla sua fascia destra, tirando fuori 3 gol da quella parte. Teniamo comunque presente come il Real, pure giocando nettamente peggio delle proprie possibilità, abbia creato nel corso della partita diverse occasioni anche importanti, nonostante le prove positive di Benatia e Chiellini. In generale comunque un dato è importante: in questa partita la Juve clha dimostrato di aver pensato la sua strategia partendo da come attaccare il Real con la palla, piuttosto che, come normalmente è stato per la Juve di Allegri in questi anni, pianificare nei minimi dettagli la fase difensiva. Ha subito sicuramente di più del solito, ma dovendo rimontare era la cosa giusta da fare. La domanda sorge spontanea: se questo approccio fosse stato scelto da agosto? Ovviamente coi se e coi ma la storia non si fa, ed è anche sbagliato cercare di trarre conclusioni dalla singola partita, però questa spensieratezza nel giocarsi la partita può essere un punto di partenza per la crescita che ancora manca ai bianconeri quando c'è da dare qualcosa in più.
Sbollita la rabbia per come è finita, e ci vorranno giorni, credo che la Juve possa alzare la testa e guardare al futuro con più consapevolezza.
Tifiamo tutti Roma ora.