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lunedì 16 aprile 2018

Kennett Faried: Rebound

“Se vuoi tirare devi prima andare a rimbalzo”, dice mamma Waudda al piccolo Kenneth. Lui sbuffa e non fa nulla per trattenere il nervosismo. Alla fine vuole solo prendere la palla e scagliarla verso il canestro, come fanno tutti i ragazzini della sua età.
“Rimbalzo? A rimbalzo? Davvero mamma?”, risponde Kenneth.
“Veramente, Kenneth. A rimbalzo”, incalza lei.
Mamma Waudda è una donna molto particolare. Lei e il marito, il padre di Kenneth, giocano spesso a basket assieme. Waudda, per non farsi riconoscere al playground, si camuffa per sembrare un uomo e lottare su ogni pallone senza che nessuno abbia dei pregiudizi su di lei. E’ solo una donna che ama il basket e vuole solamente giocare duramente, sfidando chiunque si frapponga fra lei e il suo obbiettivo. E’ lì che ha imparato ad andare a rimbalzo con coraggio, a sgomitare per recuperare il possesso e a leggere la traiettoria della palla, una volta che questa ha sbattuto con forza sul ferro.
Waudda è una donna forte, una abituata a sfide quasi impossibili. Come quella per la sua sessualità, orientata prevalentemente verso le donne, per la quale si è sentita spesso derisa e umiliata, dopo aver partorito Kenneth. E poi la malattia. Proprio come la madre anche lei è affetta da lupus, una brutta malattia cronica di natura autoimmune, e da diabete. Due macigni molto pesanti da portare sulle sue spalle ma che non l’hanno mai spaventata ne fatta indietreggiare di un passo.
Kenneth ammira la madre più di ogni altra persona al mondo. Se lei dice che bisogna andare a rimbalzo con tutta la forza che si ha in corpo, allora probabilmente è la cosa giusta da fare. Non importa se l’altezza non te lo permette. Leggere le traiettorie, saltare più in alto possibile, con il tempo giusto e, soprattutto, desiderare di prendere quella palla più di ogni altra cosa. Andare a rimbalzo significa prendere il controllo della partita. Essere autori del proprio destino. Per Kenneth significa anche qualcosa che va oltre l’aspetto sportivo. E’ qualcosa che simboleggia il rapporto con la madre e rappresenta l’essenza stessa della sua personalità.
E’ proprio così che Kenneth Faried inizia a diventare il giocatore che tutti abbiamo ammirato al college, con la nazionale statunitense e con la maglia dei Denver Nuggets. Ai tempi di Morehead State, quando le condizioni di mamma Waudda iniziano a peggiorare, obbligando la donna a un trapianto di reni, Kenneth ha solo una cosa che gli passa per la testa quando scende in campo.
“Immagino che ogni rimbalzo che catturo aggiunga un giorno in più alla vita di mia madre”
Kenneth vuole dominare sotto i tabelloni e non lo fa solamente a parole. Con la #35 degli Eagles di Morehead State diventa uno dei rimbalzisti più forti dell’intera nazione. Il verme rodmaniano si impadronisce della sua mente e del suo corpo, trasformando ogni pallone vagante in una opportunità. Ogni possesso diventa vitale. Ogni singolo possesso.
Se andate a vedere quali sono i giocatori ad aver catturato più rimbalzi nella storia della Ncaa dal 1985 a oggi, al terzo e secondo posto trovate:
Derrick Coleman (Syracuse, 87-90): 1537
Tim Duncan (Wake Forest, 94-97): 1570
Al primo c’è Kenneth Faried, che dal 2008 al 2011 con gli Eagles di Morehead ha catturato 1673 rimbalzi. Il più grande di tutti in questo fondamentale nell’era moderna del basket universitario. Forse quei rimbalzi sono davvero serviti per far sopravvivere mamma Waudda, che nel 2010 viene sottoposta con successo al trapianto di reni e che, precedentemente, si era legalmente sposata con Manasin, altra donna molto importante nella vita di Faried. Lottare e perseverare. Senza arrendersi mai.
“Ho il mio rene e ora posso vedere mio figlio giocare nella Nba”. E’ esattamente quello che succederà.
Nel 2011 Kenneth viene scelto dai Nuggets e diventa “The Manimal”. Un giocatore generoso, potente e spettacolare quando può attaccare in campo aperto e volare sopra il ferro. Uno che non si ferma mai, da canestro a canestro, ininterrottamente finché le gambe reggono, finché la sua squadra ne ha bisogno. E’ così che ha vinto la medaglia d’oro ai Mondiali di basket in Spagna nel 2014. E’ così che è entrato nel primo quintetto del torneo.
Lottando. Perseverando.
I Playoffs nel biennio 2012-2013. L’estensione contrattuale milionaria. Un ruolo fondamentale all’interno dell’organizzazione.
E ora… il nulla. Da metà Dicembre, Kenneth non vede più il campo. Dimenticato nell’ultimo seggiolino disponibile della panchina. Davanti a lui ci sono Jokic, Millsap, Plumlee e Lyles. Per coach Malone è semplicemente una questione tecnica. Per Kenneth, probabilmente, è anche, se non soprattutto, una questione d’orgoglio.
Una situazione difficile, estremamente dura da accettare per uno come lui. Dentro, però, Kenneth sa come venirne fuori. Se c’è una cosa che mamma Waudda gli ha insegnato è proprio quella di non arrendersi mai di fronte a nulla. Di andare a rimbalzo anche se l’altezza non glielo permette. Di andarsela a prendere dove nessuno osa mettere la mano. Di sbattere anche la faccia per terra, se necessario.
Dietro quella palla vagante c’è ogni cosa. La distanza fra un canestro e l’altro è tutto quello che separa Kenneth dal suo destino, dalle sue paure, dalle sue ambizioni.
Dentro quel campo si può veramente lottare per fare la differenza. Perchè alla fine è proprio questo il senso di tutto quanto. Fare la differenza. Per noi stessi. Per qualcuno. Per la squadra
Kenneth è seduto su quel seggiolino ad aspettare una nuova opportunità, costruendo dentro di se la motivazione per quello che verrà.
Il prossimo rimbalzo è l’unica cosa che conta. Una palla senza padrone, che si libera in cielo.
Leggere la traiettoria. Metterci una mano sopra. Poi l’altra. Ecco, il rumore più bello del mondo, quello dopo aver preso un rimbalzo.
Io, in mezzo a tanti. “E’ mia!”.
Una sensazione unica.
Non c’è nulla di più bello per Kenneth.
Ora più che mai.


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