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domenica 13 maggio 2018

There are no shortcuts

La pazienza è una virtù importantissima.
Sapere valutare attentamente ogni mossa, attendere il momento propizio, non farsi cogliere dalla fretta.
Attendere di cogliere i frutti del proprio lavoro quando sono ben maturi.
Nel mondo della NBA, questa massima è d'oro: la storia della lega è piena di squadre leggendarie che hanno costruito le proprie epopee su progetti a lunghissimo termine, sviluppo dei giovani, accumulo di scelte del draft...
Basti pensare ai moderni Golden State Warriors: una squadra il cui ormai mitico core storico (Steph, Klay e Draymond) viene da un saggio sviluppo delle proprie scelte al draft: pazienza, fiducia nelle proprie decisioni e professionalità hanno portato i GSW ad essere una delle più grandi squadre della storia della pallacanestro americana e mondiale.
In altri casi, invece, per fare il salto di qualità occorre aggiungere una o più superstar al momento giusto: lo sanno bene i Lakers che presero Shaq, gli Heat che portarono in Florida LeBron e Bosh la stessa estate a far compagnia a Wade...
E, soprattutto, lo sanno a Boston, che creò nell' estate del 2007 il mitico trio Garnett-Allen-Pierce (insieme alla giovanissima stella Rajon Rondo, scelto al draft pochi anni prima) grazie a 2 geniali trades con Timberwolves e Sonics (sigh...), portandosi a casa il Larry O'Brien quella stessa stagione.
In un certo senso, è proprio da questa inconsueta "instant win", del concetto di squadra capace di passare da un record di 24-58 a 66-16 in un solo anno (!!!) grazie alle trades, che inizia la nostra storia.
Mikhail Prokhorov è un tipetto... interessante: magnate russo ricchissimo (secondo uomo più ricco della Russia, più di 13 miliardi di dollari, mica bruscolini) che ha costruito la sua fortuna nel settore dei minerali preziosi, è abituato a trasformare in oro tutto ciò che tocca.
Succede che, complice la noia di essere arrivato in cima, la voglia di far parlare di sè, o semplicemente una bevuta di troppo, Mikhail decide che ha voglia di comprare una franchigia NBA.
E di vincere, come ha sempre fatto nella vita.
La scelta ricade sui disastrati New Jersey Nets, che ben lungi dai fasti di inizio millennio targati Jason Kidd e scoppole alle finals dei Lakers del three-peat, vengono da una stagione 2009-2010 che definire pessima è un eufemismo.
Dopo aver impacchettato il promettente sophomore Ryan Anderson e soprattutto Vince Carter, faro della squadra, verso Orlando in cambio di grandi nomi del calibro di... Courtney Lee, Tony Battie e Rafer Alston, iniziano la stagione con un promettente 0-18, che diventa 2-30, 3-40, 4-46 e chiude con 12-70.
Horror puro e record negativi a manetta, come era logico aspettarsi sapendo che i giocatori più importanti a roster erano un 20enne Brook Lopez e l'onesto Devin Harris, più qualche giovane di buone speranze (allora...).
Il facoltoso patron russo vuole invertire la rotta con un restyling completo della franchigia, destinata a diventare tra le mete più ambite dalle superstar NBA: l'obiettivo è il trasferimento a Brooklyn e la costruzione di un nuovo splendido palazzetto: il Barclays Center.
Mentre fervono i preparativi per il trasferimento e l'inizio della nuova era, passano due anni, gli ultimi dei New Jersey Nets. le stagioni tra il 2010 e il 2012 sono misere, ma si segnala l'arrivo della prima superstar del progetto di Prokhorov: Deron Williams lascia gli Utah Jazz e arriva ai Nets, in cambio di Harris, il promettente Favors e due future scelte.
Ed è proprio questo il ritornello che andrà affermandosi: per una squadra che ha in programma di adottare come religione il "go big or go home", le scelte non servono: servono i campioni... giusto?
La stagione 2012-2013 è la prima dei nuovissimi Brooklyn Nets: logo accattivante e minimal, divise bianco/nere, nuovo enorme bacino di utenza, una splendida arena e un proprietario che non si pone limiti di spesa per arrivare al titolo che tanto brama.
Al core composto da Williams e Lopez, si aggiungono Joe Johnson, arrivato dagli Hawks in cambio di 5 giocatori (tra cui Morrow e Farmar) e una prima scelta protetta lottery, e pure l'ultimo, romantico canto del cigno del 39enne Jerry Stackhouse.
Il record è un incoraggiante 49-33, il primo vincente dalla lontana stagione 2005-2006: significa playoffs, e uscita al primo turno per 4-3 con i bulls falcidiati dagli infortuni.
La situazione sembra apparentemente rosea: il nucleo è relativamente giovane (Johnson ha 32 anni, Deron 28 e Lopez appena 24) e i role players sono nel loro prime (o ancora in rampa di lancio) e di buona qualità (su tutti Blatche, Humpries, Gerald Wallace e il "Mini-Rodman" Reggie Evans)
Eppure, guardando il saldo-picks, si evince che i Nets hanno impegnato TUTTE le loro seconde scelte al draft fino al 2017 in trades avvenute tra il 2011 e il 2012.
Dettagli, agli occhi di Prokhorov che tranquillizza il GM Billy King sulla sua strategia: il vero botto arriverà quell'estate.
Nessuno, nella intera NBA, poteva immaginare quanto i Nets avrebbero dominato quell'estate: i roboanti proclami di titolo di Prokhorov, fino a quel momento apparsi sparate o poco più, si fanno incredibilmente seri.
Con in testa l'esempio dei Celtics nel 2008 e il recente exploit degli Heat nel 2010, anche i Nets vogliono entrare a far parte del club delle "instant-contenders".
Vogliono essere il brutto anatroccolo che si tramuta in cigno in un attimo, a zittire i critici, ad ogni costo... ogni costo.
Per farlo, Billy King ha un piano molto semplice: prendersi in blocco quel che resta dei Big 3 di Boston, ovvero Garnett e Pierce orfani di Ray Allen, conditi dal buon Jason Terry, perchè tanto siamo ricchi e chissenefrega... giusto?
Non c'è tempo, bisogna vincere, e bisogna farlo adesso.
E così, è successo.
Il 12 luglio 2013, si realizza una trade destinata a cambiare per sempre il destino dei Nets... non esattamente nel senso sperato.
A Brooklyn si portano a casa Garnett, Pierce e Terry: grandissimi giocatori, ma che hanno rispettivamente 37 anni il primo e 36 i secondi: superstars non esattamente di primo pelo, che già l'anno prima a Boston avevano fatto capire di essere arrivati, se non alla frutta, ad un tardo secondo.
Il prezzo da pagare non consiste solo in 5 modesti role players, ma in 3 prime scelte non protette (2014, 2016 e 2018) e il diritto per i celts di scambiare la propria prima con quella dei Nets nel 2017.
Quella del 2015 era già promessa in scambio agli Hawks nell'affare Joe Johnson dell'anno prima.
In pratica, i Nets ipotecano 5 anni del proprio futuro per 3 ex-superstars sul viale del tramonto.
L'entusiasmo a Brooklyn (e nella lega) era però talmente grande (e ingiustificato) da non far comprendere esattamente la portata del disastro appena compiuto.
Apparentemente, all'inizio della stagione 2013-2014 i Nets si presentavano nelle mani dell'idolo di casa Jason Kidd, fresco coach, come una squadra stellare.
Il quintetto, composto da Lopez, Garnett, Pierce, Johnson e Williams, aveva una dose di talento seconda a pochissimi.
La panchina poteva contare sulla guida del Jet Jason Terry e di solidi giocatori come Kirilenko, Thornton, Blatche, Livingston, Teletovic e il rookie Plumlee.
In teoria, una corazzata.
In pratica, un roster vecchio i cui punti fermi avevano da tempo superato il proprio prime (Garnett, Pierce, Terry, Kirilenko...) o stavano iniziando proprio in quel momento il loro declino (Williams e Johnson).
La stagione è un disastro: la "corazzata" nets si dimostra temibile solo all'apparenza, ma priva di qualsivoglia organizzazione e martoriata da infortuni e cali di concentrazione (14 sconfitte consecutive tra marzo e aprile).
Il record a fine stagione è addirittura peggiore della precedente: da 49-33 a 44-38.
I playoff, da 6th seed, vedono un inatteso upset nei confronti dei Raptors per 4-3: un sussulto d'orgoglio di vecchie superstar che a nulla servirà contro il ciclone-heat, proprio coloro che rappresentavano l'esempio principe di dominio del mercato delle superstar per Prokhorov: 4-1 e tutti a casa.
L'anno successivo, il progetto della supersquadra tanto glorificato, delle spese folli di luxury tax, del "win now", della grandeur vuota e naif di Prokhorov, viene totalmente smantellato.
Se ne vanno Pierce, Terry e Kirilenko, e pochi mesi dopo anche Garnett: avevano tutti dimostrato di non essere altro che l'ombra dei giocatori che furono.
I Nets intanto avevano appena sacrificato completamente ogni possibilità di miglioramento e di appeal dei successivi 5 (leggasi: C I N Q U E) anni per trovarsi all'inizio della stagione 2014-2015 con lo stesso core Lopez-Williams-Johnson di due anni prima.
Fino al draft 2018, si trovavano con sole due prime scelte (2015 e 2017) da scambiare nel caso fossero migliori di quelle di Hawks e Celtics, e senza seconde scelte fino al 2017: per ottenere due seconde scelte future, sono addirittura obbligati a scambiare coach Kidd (!) con i Bucks.
I Nets finiranno di pagare le conseguenze delle scelte del luglio 2013 nel lontano draft del 2019: nel frattempo, hanno avuto tutto il tempo di riflettere su quanto voler affrettare i tempi e andare in all-in sia una tattica incredibilmente rischiosa, mentre si godevano il declino di Williams e Johnson.
A poco sono servite le scuse di Prokhorov, che dopo aver ammesso con sconvolgente ingenuità che vincere in NBA non è così facile come pensava (ma davvero?), ha deciso di vendere il 49% delle quote della franchigia un mese fa.
Ma d'altronde, un pessimo capitano è il primo ad abbandonare la nave.
I Celtics invece hanno costruito su quella trade la base del loro geniale progetto che li ha portati, aspettando 4 anni in più, ad essere una contender di futuro avvenire.
La pazienza, questa sconosciuta.
Il peggio della tempesta è comunque passato: dal 2018-2019 i Nets potranno ricominciare a guardare al futuro con la consapevolezza che saranno loro stessi a decidere cosa fare da grandi, con il proprio destino finalmente in mani bianconere, e non biancoverdi.
Coach Atkinson ha portato una squadra ancora acerba e modesta ad un dignitoso 28-54, senza Jeremy Lin per l'intera stagione.
Il nuovo GM Sean Marks, scuola Spurs, invece sta faticosamente cercando dal 2016 di riparare ai terribili danni della gestione King e della incauta boria di Prokhorov.
Finora è riuscito a portare a Brooklyn due grandi talenti ancora inespressi come D'Angelo Russell (costato il restante, folle contrattone di Mozgov e i diritti a Kyle Kuzma pescato saggiamente alla 27) e Jahlil Okafor, insieme agli interessanti Whitehead, LeVert, l'idolo Spencer Dinwiddie, Hollis-Jefferson e il promettente rookie Jarret Allen.
Intanto, per evitare che gli vengano strane idee un domani, ha attaccato un quadretto nel suo ufficio.
C'è scritto "THERE ARE NO SHORTCUTS".
Perchè nell'NBA, come nella vita, non esistono scorciatoie se miri al successo: solo tanto, tantissimo lavoro e impegno.

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